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L’Europa ha dei problemi che vanno oltre la Brexit

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Non è solo la Brexit a tenere svegli di notte i leader europei o a tormentare la loro fase rem. L’ascesa cinese, la stagnazione economica e le divisioni tra gli Stati membri sono motivi molto validi che creano al loro animo grandi preoccupazioni.

Non è scandaloso affermare che l’Eurozona si trova in bilico sull’orlo della recessione. La Germania, da sempre motore economico dell’UE, ha rallentato più bruscamente del previsto a gennaio. L’Italia è già in recessione, causata in parte dalla politica deflazionistica economica imposta de Bruxelles e da un sistema bancario in difficoltà. Per il nono mese consecutivo, la fiducia economica all’interno della zona euro è la più bassa registrata dal 2013 ad oggi.

In questo triste contesto, la Brexit non rappresenta altro che la classica ciliegina sulla torta. Un’uscita del Regno Unito senza accordo creerebbe immani danni ai produttori di tutto il continente. Una volta istituzionalizzata la politica fiscale deflazionistica, la BCE ha di fatto concluso il suo programma di allentamento quantitativo. La produttività ha superato la crescita dei salari in gran parte del blocco e il surplus è stata la stampella che ha sostenuto la domanda negli ultimi anni. Se verranno imposte tariffe sugli scambi col Regno Unito, la già debole economia europea ne uscirebbe con le ossa rotte.

A destare timore è il pericolo proveniente da Oriente. Per questo motivo, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker hanno incontrato questa settimana il presidente cinese Xi Jinping per discutere le relazioni tra i due blocchi.

Qualche giorno prima dell’incontro, l’UE ha pubblicato una “prospettiva strategica” sulla Cina in cui definiva la seconda più grande economia del mondo un “rivale sistemico” che “promuoveva modelli alternativi di governance”. Eppure la Cina è anche un’enorme fonte di domanda per l’UE, sia attraverso le esportazioni che gli investimenti esteri diretti.

Ecco perché, prima delle elezioni europee, sia Macron che la Merkel hanno delineato le loro visioni per il futuro dell’UE. A fine febbraio, il cancelliere tedesco aveva esposto dei piani industriali per contrastare la minaccia proveniente dall’Asia. Da parte sua, il presidente francese vuole dotare l’UE di un bilancio centrale per finanziare l’innovazione, introducendo uno “scudo” di sicurezza sociale per tutti i lavoratori europei, aumentando la spesa per la difesa, “proteggendo” i confini dell’UE e limitando i grandi monopoli tecnologici. Ciò nella speranza di sostenere l’innovazione e la crescita tra le economie dell’UE.

Tutti propositi rimasti vani. I giochi politici ed economici hanno ostacolato la fusione tra due grandi fornitori ferroviari, Alstom e Siemens. La Merkel ha sempre sostenuto la necessità di atteggiamenti più permissivi nei confronti delle fusioni tra società europee, unico modo per contrastare le grandi società cinesi.

Chi prenderà in considerazione gli stimoli economici, la stabilità finanziaria e la strategia industriale: gli Stati del Nord Europa, le grandi imprese o cittadini poveri dell’Europa meridionale? Chi farà politica: i burocrati non eletti, il Parlamento europeo o gli Stati membri? E chi determinerà il futuro del blocco se, dopo il Regno Unito, dovessero andare via la Germania o la Francia? Sta ai leader europei dare una risposta a questi quesiti, sempre se sono capaci di farlo.

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